Sunday, January 29, 2006

I GUERRIERI DELLA PREISTORIA


Gli allievi dell'ESI visionano il documentario sugli aborigeni di Irian Jaya

Le tribù indigene di Irian Jaya sono in lotta continua con gli stranieri invasori e il governo indonesiano. Per evitare una catastrofe che non è solo etnica. E ha le cifre della distruzione di un intero ecosistema.

Totalmente isolati fra le montagne attorno al Puncak Jaya, che con i suoi 5.033 metri è la più alta vetta di Irian Jaya, le tribù degli Amugne e Komoro avevano avuto pochi contatti con gli stranieri all'infuori di alcuni missionari arrivati fino a quelle remote regioni per evangelizzarli. I loro scambi avvenivano con maiali e conchiglie. Le montagne erano sacre perché abitate dagli spiriti dei loro antenati. Poi arrivarono gli ingegneri della Freeport-McMo Ran, società mineraria statunitense di New Orleans, che sui pendii della montagna sacra avevano scoperto giacimenti d'oro, argento e rame.
. Dove prima i nativi erano andati a caccia di uccelli e avevano coltivato la batata (patata dolce) sorsero strade e una città con negozi, scuole, campi da tennis e bar per gli 8.700 impiegati, tecnici e operai della miniera. All'inizio gli abitanti della foresta furono abbagliati dalla ricchezza degli stranieri, poi compresero che gli era stata rubata la terra senza ricevere nulla in cambio. I migliori posti di lavoro venivano dati ai nordamericani e agli indonesiani provenienti dalle altre isole dell'arcipelago. Per loro restavano solo i lavori più faticosi, duri e mal pagati, come scaricare i rifiuti delle miniere. Ogni giorno 120 mila tonnellate di materiali di risulta finivano nel fiume Ajekwe. Già nel 92 il Word Wide Fund for Nature ne denunciò le conseguenze devastanti per l'ambiente: l'acqua del fiume era fortemente inquinata, non più potabile e portatrice di morte per uomini, animali e piante. Le palme di sago (da cui si ottiene una farina commestibile) e i pesci, base della dieta alimentare dei locali, morivano. Iniziarono così le proteste. Nell'agosto del '95 migliaia di indigeni, armati di lance e frecce, bloccarono l'entrata principale del quartiere dei minatori e quella degli uffici. Ogni dimostrazione fu repressa nel sangue dai militari indonesiani e dalle guardie della Freeport. Alcuni dimostranti, nel '97 hanno tentato di seguire le vie legali, ma non fidandosi delle autorità indonesiane si sono rivolti a un tribunale statunitense, che ha emesso un primo giudizio positivo per la loro causa. L'accusa è di mancato rispetto dei diritti umani e di distruzione dell'ambiente. La richiesta di risarcimento è stata di 9 mila miliardi di lire. Conflitti dimenticati e genocidi annunciati ai margini del mondo. A Timor come a Irian Jaya, dove le popolazioni locali rivendicano l'indipendenza e la difesa della propria cultura. Suharto, salito al potere nel '65, dopo aver pacificato il paese con l'uccisione di un milione di militanti comunisti e con il confino nei lager di stato per mezzo milione di oppositori al suo regime, ha perseguito una politica espansionista. Sempre più a est, il padre-padrone dell'Indonesia ha lanciato il suo esercito di isola in isola, per realizzare il sogno della "Grande Indonesia", fino a occupare la parte ovest della Nuova Guinea, "la terra calda che sorge dal mare", mentre la parte a est otteneva l'indipendenza dall'Australia nel 1975. Un paese difficile da controllare, abitato da tribù che parlano 250 lingue, di cui solo 23 usate da oltre 10 mila persone. Un mosaico etnico che vive nella preistoria, frantumato in un territorio impervio, scoperto dai Portoghesi all'inizio del '600 e chiamato la "Ilha dos Papuas", dal malese papuwah, "l'isola delle Capigliature Crespe". Ribattezzata dagli Olandesi, che la conquistarono nel 1824, "Nuova Guinea" perché il colore della pelle degli abitanti ricordava quello degli indigeni della Guinea africana. Nel luglio del '69, dopo la partenza degli Olandesi, Suharto impose un referendum burla, in cui solo 1.025 persone scelte su un milione di abitanti dal governo di Giakarta ebbero il diritto di votare. Il risultato era scontato. L'annessione all'Indonesia passò a larga maggioranza. In seguito al plebiscito, prese il nome di Irian, acronimo che sta per "Ikut Republik Indonesia Anti-Nederland", ossia "Ricorda che la Repubblica dell'Indonesia è anti-olandese", seguito dall'aggettivo Jaya, che significa "vittoriosa". La posta in gioco era ed è alta. Il paese è ricco di minerali, petrolio e legname. Compagnie coreane, giapponesi e statunitensi hanno licenza di deforestare senza obbligo di rimpiazzare gli alberi tagliati, col risultato che erosione e allagamento dei suoli aumentano, creando ferite insanabili nella foresta pluviale. Gli Yali, "quelli dell'est", insieme coi Dani e gli Asmat, sono uno dei gruppi più numerosi e primitivi di Irian Jaya, formato da circa 20 mila persone. Vivono a 4.000 metri di altitudine nella regione del Yalimò, tra i fiumi Yahuli e Ubahak, nella Pass Valley e nelle valli dei fiumi Kwik, Heluk e Solo. Le carte ufficiali identificano questa zona con la dicitura "Rivelamento dati incompleto". Non esistono strade. Le montagne sono impervie e avvolte da una fitta foresta. Tutto questo rende la regione inaccessibile, con accentuazione delle differenze culturali e linguistiche. Nel 1996 il governo centrale ha infranto anche quest'ultima barriera, e ha varato un progetto per lo spostamento degli Yali, così da sradicarli dalle loro terre e relegarli nei villaggi costruiti in pianura nella zona di Elilim. Ufficialmente per proteggerli dai catastrofici terremoti che devastano periodicamente la zona, come è avvenuto nel 1989 quando sono morte centinaia di persone. Ma in realtà perché le campagne di rilevamento geologico hanno individuato giacimenti di uranio. I funzionari hanno cercato di convincere gli aborigeni, regalando loro riso per un anno, tre ettari di terra e un televisore. "Spostare gli Yali vuol dire condannarli progressivamente all'estinzione", sostiene Gilda della Ragione, docente di Etnologia Religiosa all'Università di Genova. "Da sempre vivono in villaggi compresi tra i 1.000 e i 2.000 metri, per cui portarli nella valle dell'Elilim, a una altezza di 300 metri, significa esporli alla malaria e costringerli a dissodare terreni paludosi poco fertili, dove difficilmente potranno coltivare taro, igname, manioca e batata, i tuberi che da sempre costituiscono la base della loro alimentazione. Anche la loro cultura è in pericolo. Gli Yali sono accusati di essere ribelli, e si scontrano con l'esercito regolare perché hanno difficoltà a vivere in zone dove ci sono realtà ambientali così differenti da quelle dei loro territori d'origine. Spesso non sanno come sopravvivere e creano dei problemi anche lungo la frontiera con Papua Nuova Guinea, che attraversano per sfuggire alle repressioni indonesiane". Questo progetto rientra nel programma di "indonesizzazione e annullamento delle culture locali" che da anni è stato imposto da Suharto. Tre quarti del territorio è stato chiuso per "ragioni di sicurezza" e dal '70 il governo sta portando avanti la "trasmigrasi", il grande esodo delle popolazioni dalle isole sovraffollate dell'arcipelago, finanziato anche dalla Banca Mondiale con oltre 400 milioni di dollari. Da Giava, Madura e Bali milioni di individui sono stati trasportati a Sumatra, a Sulawesi, nel Kalimantan e a Irian Jaya, dove sono già arrivate più di 700 mila persone che nel 2.000 supereranno il milione e mezzo. Ossia saranno tante quanto è la popolazione attuale della regione, così da ridurre i nativi a una minoranza etnica. Con loro, sono arrivati dalle Molucche e da Sulawesi piccoli imprenditori, fra cui anche molti di origine cinese, che controllano il commercio, i mercati, i negozi, i ristoranti e i bar, pescatori e autisti di pullman e di camion. Ai Dani, agli Yali, agli Asmat e alle altre 250 tribù restano solo un'agricoltura stentata e un po' di turismo. In cambio di pochi dollari per gli stranieri con la sindrome dell'esploratore, organizzano feste tradizionali, mostrano le mummie affumicate dei loro avi, esibiscono i loro astucci penici e sventolano sotto gli occhi atterriti delle signore le dita mozzate delle loro donne. I ribelli indipendentisti, raggruppati nelle fila del movimento "Organisasi Papua Merdeka" (Organizzazione per Papua Libera) si battono contro le deportazioni di massa, le violenze, i bombardamenti dei villaggi, le torture e le uccisioni opera dei militari indonesiani. Da 25 anni l'OPM lotta per costituire un proprio Stato indipendente e libero da Giakarta, lontana circa 5 mila chilometri. Dopo la repressione governativa degli anni Ottanta, durante la quale migliaia di ribelli sono stati uccisi, oggi l'organizzazione è formata da solo 500 persone, alcune armate unicamente di archi e frecce. Un gruppo di guerriglieri l'8 gennaio '96 ha preso in ostaggio quattro giovani studiosi inglesi per richiamare l'attenzione del mondo sulle loro richieste e sulla sistematica violazione dei diritti umani da parte dell'esercito indonesiano. È intervenuta anche la Croce Rossa. Le teste di cuoio inglesi e i militari indonesiani hanno attaccato il 15 maggio '96 il villaggio di Geselema, dove i quattro prigionieri erano rinchiusi. Gli uomini della preistoria, muniti solo di archi, sono stati soverchiati dalle armi da fuoco. I ricercatori inglesi hanno solidarizzato con gli aborigeni dichiarando alla stampa, non appena liberati, che la rivendicazione dei loro diritti era legittima. Tre quarti del territorio è ancora chiuso per ragioni di sicurezza. Ma uno spiraglio forse si sta aprendo, dopo gli ultimi avvenimenti che hanno messo in ginocchio l'economia dell'Indonesia e fatto vacillare il regime di Suharto, riconfermato però in questi giorni al suo posto dall'Assemblea Consultiva Popolare. Si tratta del settimo mandato per il 76enne leader, che guida l'Indonesia da oltre trent'anni. Il Fondo Monetario Internazionale ha bloccato gli aiuti economici di 3 miliardi di dollari. I versamenti riprenderanno solo se ci saranno il risanamento finanziario, l'abolizione dei monopoli e la liberalizzazione dell'economia. Questo significa che Suharto dovrà cedere parte dei suoi poteri e avviare un processo di democratizzazione rispettando i diritti umani. Coperta per tre quarti da foreste pluviali e attraversata da imponenti sistemi montuosi, Irian Jaya, ultima frontiera dell'avventura, è affollata da infaticabili Indiana Jones, che ripercorrono le tracce di Luigi D'Albertis e Odoardo Beccari, naturalisti italiani che esplorarono i monti Arfak nella seconda metà dell'Ottocento. Ancora una scoperta, nell'agosto del '95, una tribù di cannibali vicino al confine con Papua Nuova Guinea, nella provincia di Merauke, dove era stata identificata una tribù simile già nel '74. Ma non solo. L'agenzia Antara, che trasmette da Giakarta, ha dato la notizia, nell'ottobre del '97, che nel distretto di Manokwai, nella penisola occidentale, sarebbero stati avvistati da alcuni abitanti di Bitumi un gruppo di "uomini bianchi e corpulenti" appartenenti a una tribù stanziata presumibilmente nelle vicinanze della sorgente del fiume Wiriagar, a due giorni di barca a motore dalla città. Scoperta che va ad aggiungersi a quella fatta nell'87 dalla spedizione del Centro Studi Ligabue di Venezia, che individuò un'esigua tribù di pigmei la quale scheggiava asce di pietra come facevano gli uomini della preistoria in Europa 10 mila anni fa. "Dare la notizia di una tribù scoperta o di una tribù che non ha mai visto i bianchi o di una tribù "bianca" è sensazionalismo", sostiene Gilda della Ragione. "Tutto quello che si trova corrisponde sempre a quello che si vuole trovare e si ricerca. Non si scopre più nulla. Scovare l'ignoto all'interno di ciò che è conosciuto è quasi impossibile. Tutti ritornano con le stesse notizie. In Italia sono sempre le stesse persone a scrivere articoli con la pretesa di fare uno scoop. Irian Jaya è uno degli ultimi posti al mondo dove l'immaginario occidentale può sbrigliare la propria fantasia. È come imbattersi in un alieno senza provare paura. Si evidenziano solo le connotazioni negative di queste popolazioni: sono pigmei, guerrieri crudelissimi, cannibali sanguinari e primitivi selvaggi, non si sa bene se siano uomini o animali. Come per lo Yeti, si tratta di miti fantasiosi che ritornano periodicamente sui giornali. Ad effetto si insiste sui rituali cruenti dei funerali, di cui sono protagoniste le donne, che si automutilano le dita delle mani per esprimere il proprio dolore, anche perché con la morte del marito, o del padre, o del fratello, rimangono senza sostentamento. Inoltre il cannibalismo oggi non sarebbe più possibile, anche se volessero praticarlo, perché esiste uno stretto controllo sociale, militare e religioso che lo impedisce. Sono cambiate troppe cose, i costumi si sono evoluti. Il cannibalismo era attuato per molti motivi, religiosi e spirituali, e in un modo particolare senza scene di bassa macelleria. La vittima sacrificale veniva scelta dopo un ciclo di purificazione e solo dopo diversi anni si rinnovava il rito di morte. Inoltre venivano individuate unicamente alcune parti del corpo da mangiare, che avevano uno specifico significato simbolico. Anche l'astuccio penico (chiamato dai Dani holìm), costituito da una zucchina essiccata e trattenuto in vita da una cordicella, come ha scritto l'antropologo Karl Hider, dell'università di Chicago, in Grand Valley Dani: peacefull warriors (Holt, Rinehart and Winston, Orlando 1991) ha lo scopo di proteggere il pene e non sottolinea la potenza virile, come viene scritto sovente, ma tende piuttosto a contenere l'esercizio indiscriminato della sessualità. Negli ultimi 40 anni si è fatta più intensa l'opera di evangelizzazione da parte dei missionari. Molte tribù si sono convertite, sono divenute protestanti evangeliche e hanno dato vita a singolari fenomeni di sincretismo religioso, intrecciando i loro riti tribali con il cristianesimo e con nuove credenze, come quella del "cargo", nata negli anni Venti in seguito alla comparsa nel cielo dei primi aeroplani: i nativi sperano nell'arrivo di un aereo da dove usciranno i loro antenati con gli oggetti dei bianchi. Così saranno finalmente ricchi.

Articolo di di Pietro Tarallo, tratto da www.dweb.repubblica.it/archivio_

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