Accomunate dall’essere i due primi paesi al mondo per popolazione e dall’essere considerati le due presumibili protagoniste del XXI secolo, dal punto di vista etnico Cina e India sono però due paesi praticamente agli antipodi, in un modo che forse non è senza conseguenze sul rispettivo assetto istituzionale. Come il sistema politico della Repubblica Popolare Cinese resta infatti monolitico dal punto di vista politico, pur se al ruolo dominante del Partito Comunista corrisponde ormai un sempre più accentuato pluralismo economico, così la popolazione cinese è una delle più compatte al mondo, specie in rapporto alle sue dimensioni. Il principale gruppo etnico è quello degli han, i cinesi “puri”, così chiamati dal nome della dinastia che governò il Celeste Impero dal 206 a.C. al 220 d.C.. Secondo il censimento del 1990, erano 1.042.482.187 persone. Non è un gruppo razziale omogeneo, ma un insieme di genti diverse che incominciarono a aggregarsi fin dal III millennio avanti Cristo per l’espansionismo delle tribù hsia dagli Altopiani Centrali prima verso Est e il mare, poi verso il Sud, infine verso l’Ovest, l’Himalaya e i deserti dell’Asia Centrale. D’altra parte, alla radicata convinzione degli han di far parte di una cultura omogenea non corrisponde una vera unità linguistica. L’idioma ufficiale è lo han yu, “lingua degli han”, nota anche come pu tong hua, “lingua comune”; come pechinese, perché si è formata nella capitale; e come mandarino, perché era usata dai funzionari imperiali. Divisa nei dialetti settentrionale, nord-orientale, orientale e sud-orientale, non è parlata come lingua materna che da 700 milioni di persone. Altri 93 milioni di cinesi usano il dialetto di Shangai (lingua wu); 55 milioni il Cantonese (lingua yué); 53 milioni il xiang dello Hunan; 45 milioni il min settentrionale e il min meridionale del Fujian; 41 milioni l’hakka dell’estremo Sud; 26 milioni il gan del Jiangxi e dell’Hubei.
Le differenze tra questi idiomi sono simili a quelle che ci possono essere tra italiano e francese o tra tedesco e olandese. Ed è proprio per ridurre al minimo i problemi di intercomprensione che la Cina mantiene il complicato sistema di scrittura ideografico. L’esistenza di queste lingue, più che alla vastità della geografia cinese, è dovuta agli accidenti della sua storia. Protetta a Est dal mare, a Sud dalle montagne e a Ovest dai deserti, la Cina è invece aperta al Nord, più o meno intorno ai 6.400 chilometri lungo cui si snoda la famosa Grande Muraglia, costruita a partire dal II secolo a.C. proprio per proteggere questa frontiera vulnerabile. Poiché le invasioni della Cina sono dunque sempre partite dal Nord, è al Sud che si rifugiavano i cinesi che tentavano di resistervi. E ciò ha favorito spesso una divisione del paese tra un Nord “occupato” e centralizzato e un Sud “libero” in cui invece le particolarità regionali avevano libero sfogo. Inoltre, è da Nord a Sud che è avvenuta la grande espansione del popolo han, specie durante la dinastia Sung del 960-1279. Prima di quell’epoca, la cultura cinese era concentrata nelle pianure settentrionali e nelle valli dello Huang Te, il “Fiume Giallo”, la cui economia è tutt’ora basata sulla coltivazione del grano. Ma la sovrappopolazione spinse alla conquista delle zone risicole del Sud, da cui furono espulsi verso l’Indocina e il Pacifico gli antenati di thailandesi, laotiani, vietnamiti, birmani, perfino polinesiani. E la massa di coloni che si stabilì nei nuovi territori sviluppò una cultura di pionieri in parte distinta da quella di chi era rimasto nella patria ancestrale.
Le 55 minoranze etniche ufficialmente riconosciute rappresentano in tutto appena l’8,1 per cento del popolo cinese. Ma date le immense dimensioni della popolazione cinese, si tratta di una massa di quasi 92 milioni di persone: più di qualsiasi Stato dell’Unione Europea. E si tratta di “minoranze” residenti in aree che complessivamente costituiscono il 60 per cento del territorio della Repubblica Popolare Cinese. In cinese vengono correntemente definiti tuzhu minzu, “popoli rustici”. Dal secondo al decimo posto seguono (dati del 1990): 15.489.630 zhuang, affini ai thailandesi, cui è concesso un regime di autonomia nella Regione Autonoma Ghuangxi Zhuangzu, in una Prefettura Autonoma dello Yunnan e in una Contea Autonoma del Guangdong; 9.821.180 manciù; 8.602.978 hui, di lingua cinese e religione musulmana, con un regime di autonomia nella Regione Autonoma Ningxia Huizu, in alcuni Distretti Autonomi nella Regione Autonoma del Xinjiang Uygur ed in alcune Contee Autonome nelle Province di Qinghai, Hubei, Guizhou e Yunnan; 7.398.035 miao, o hmong come li chiamano in Indocina, che condividono con altre minoranze due prefetture autonome nel Guizhou e un distretto autonomo nell’isola di Hainan; 7.214.431 uygur, di lingua turca e religione musulmana, nella Regione Autonoma del Xinjiang-Uygur; 6.572.173 yi, affini ai birmani, con un Distretto Autonomo nel Sichuan e uno nello Yunnan; 5.704.228 tuchia, pure affini ai birmani; 4.806.849 mongoli, non solo nella Regione Autonoma della Mongolia Interna ma in due distretti autonomi del Xinjiang, in un distretto autonomo condiviso con tibetani e kazaki nel Qinghai e in alcune contee autonome nelle aree più occidentali del Nord-Est; 4.593.330 tibetani, non solo nella Regione Autonoma Tibetana ma anche in cinque distretti autonomi del Qinghai, due del Sichuan, uno nel Gansu e uno nello Yunnan.
Non solo i tibetani ma anche gli uygur, gli hui e i mongoli sono protagonisti di periodiche esplosioni di protesta nazionalista, a volte sfociate nella violenza. E tutte queste etnie sono state vittime di dure repressioni, che nel caso dei tibetani comprendono anche l’amputazione di varie aree del Tibet storico dalla Regione Autonoma. E’ pure da considerare una punizione per il loro collaborazionismo coi giapponesi nello Stato indipendente fantoccio del Manciukuò la non concessione di alcuna forma di autonomia ai manciù. A parte ciò, il sistema di tutela delle minoranze in vigore nella Repubblica Popolare Cinese è in teoria abbastanza sofisticato. La concessione dello status di shaoshu minzu, “nazionalità minoritaria”, dà diritto ad alcuni seggi riservati in parlamento e a istituzioni culturali autonome, in particolare scuole, giornali, case editrici ed emittenti radiotelevisive. C’è inoltre un complesso sistema di autogoverno territoriale articolato su tre livelli, a seconda del grado di omogeneità etnica. Così, le etnie con una netta predominanza storica su un territorio hanno diritto ad uno status di zi-zhi-qu, “regione autonoma”. A un livello intermedio, etnie presenti su scala più ridotta ma con territori abbastanza compatti all’interno di una provincia hanno diritto a un zi-zhi-zhou, “distretto autonomo”: come la “regione autonoma” corrisponde alla “provincia”, così il “distretto autonomo” corrisponde a una “prefettura”. A un livello più basso, etnie fra di loro molto frammischiate hanno diritto a una zi-zhi-xian, “contea autonoma”, o a un zi-zhi-qi, letteralmente “bandiera autonoma”, o “gonfalone autonomo”. Non previsti formalmente dalla costituzione sono i cosiddetti xiang, “villaggi di minoranze” riconosciuti dalla prassi soprattutto nel Sud-Ovest. Oltre a autonomia linguistica, finanziaria, culturale e scolastica tutte queste strutture hanno diritto anche a una limitata autonomia militare, con le “milizie delle minoranze” presenti soprattutto al confine. E un importante privilegio delle minoranze etniche è stata la parziale esenzione dalla feroce politica di controllo delle nascita imposta negli anni Settanta. Tuttavia la mancanza di pluralismo politico rende queste autonomie piuttosto di facciata.
A differenza della Cina, l’India è invece la più popolosa democrazia del mondo, e anche il più popoloso sistema federale. Ai 28 Stati e 7 territori dell’Unione corrispondono 4365 etnie e 1652 lingue, di cui 24 parlate da almeno un milione di persone, e 216 da almeno 10.000 persone. In tutto il 74 per cento degli indiani parla lingue del gruppo indo-europeo, il 24 per cento di quello dravida e un 1 per cento dei gruppi austro-asiatico e tibeto-birmano. La stessa Costituzione oltre all’inglese e all’hindi come lingue ufficiali riconosce 18 lingue ufficiali regionali e 22 lingue nazionali. L’hindi, lingua ufficiale a livello federale e inoltre in Uttar Pradesh, Bihar, Jharkhand, Uttaranchal, Madhya Pradesh, Rajasthan, Chattigarh, Himachal Pradesh, Haryana e Delhi, non è parlata che da 337 milioni di persone: meno del 40 per cento della popolazione. Seguono nei primi dieci posti il bengali, con 70 milioni, il telugu (lingua dravidica) con 66, il marathi con 63, il tamil (dravidica) con 53, l’urdu con 43, il gujarati con 41, il kannada (dravidica) con 33, il malayalam (dravidica) con 30 e l’oriya con 28. Solo a queste dieci lingue corrispondono otto alfabeti: devanagari (hindi e marathi), bengali, telugu-kannada, tamil, arabo (urdu), gujarati, malayam e oriya. Il punjabi dei sikh, undicesima lingua con 23 milioni di parlanti, usa poi un nono alfabeto, il gurmukhi; e col latino dell’inglese e il tibetano si arriva a un totale di undici.
Quanto alle religioni, la stessa bandiera nazionale in segno di unità nazionale è costruita assemblando i simboli di quattro fedi differenti: lo zafferano dell’induismo, il verde dell’islamismo, il bianco del sikhismo e la “ruota di Asoka” del buddhismo. E vi manca il cristianesimo, che come numero di fedeli è la terza denominazione, prima di sikhismo e buddhismo; vi manca il jainismo, che dell’India è una delle fedi più antiche; e vi manca lo zoroastrismo, che in India ha oggi il maggior numero di fedeli. In più vi è il sistema delle caste, che comporta un criterio di articolazione ulteriore, ma che d’altra parte tendendo a debordare dall’induismo a islamismo e cristianesimo rappresenta paradossalmente, assieme all’amministrazione ereditata dal colonialismo britannico e alla geografia, una delle principali forze centripete in un sistema altrimenti dominato da logiche centrifughe. Alla stessa Lok sabha, la camera bassa del Parlamento, su 545 deputati oltre ai 423 eletti in circoscrizioni uninominali a un turno “normali” ne ha 79 eletti in circoscrizioni riservate agli intoccabili, i famosi paria o fuori casta (16,2 per cento della popolazione al censimento del 2001); 41 in circoscrizioni riservate agli adivasi, popoli tribali che costituiscono come una “sesta casta”, e cui sono inoltre destinate normative particolari (8,2 per cento al censimento del 2001); e 2 nominati dal presidente della repubblica in rappresentanza degli anglo-indiani.
Articolo di Mauro Frasca
From: magazine.enel.it/
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